domenica 5 novembre 2017

Un viaggio zoppo tra i misteri d'Italia

La copertina del romanzo
Loredana Lipperini, voce e anima del programma Fahrenheit in onda dal lunedì al venerdì su Radio Tre, è una delle figure più interessanti del panorama culturale editoriale del Belpaese. Il suo blog Lipperatura, nato nell'ormai lontano 2004, quando il blogging in Italia era un'attività pionieristica, è frequentatissimo e altrettanto vivace è anche il profilo Facebook dell'autrice che meritoriamente si batte per tenere alta l'attenzione mediatica sulle zone terremotate delle Marche e non solo. Spulciando tra le decine di post sul sito ci si imbatte in un gruppetto di interventi che si legano a doppio, anzi triplo filo, con il libro edito da Bompiani, L'arrivo di Saturno è ultima fatica letteraria che viene dopo i recenti Questo trenino a molla che si chiama il cuore (Contromano, 2014) e Schiavi di un dio minore (Utet, 2015). La penna di Lipperini si trasferisce stavolta su uno dei terreni più scivolosi che la letteratura italiana mette a disposizione e cioè il racconto degli anni di piombo che può esporre l'autore ad uno spiacevole scivolamento verso la retorica. Di retorica nel libro ce n'è ben poca, per fortuna, ma l'intenzione nobilissima e meritevole  di rendere omaggio e di onorare la memoria di due giornalisti dimenticati attraverso il romanzo finisce per disperdersi all'interno di un libro di più 400 pagine. Guai tuttavia a buttare il bambino con l'acqua sporca e sarebbe ingiusto e scorretto bocciare il titolo senza appello. Indubbiamente lo stile e la cura nella scelta delle parole e del lessico, nella costruzione della frase e di alcuni passaggi narrativi rivelano una sensibilità intellettuale e narrativa di primo livello a cui fa purtroppo da contraltare una struttura narrativa un po' confusionaria che obbliga il lettore ad uno sforzo suppletivo per capire quale personaggio appartenga a quale storia. 
Graziella De Palo e il collega Italo Toni.

L'arrivo di Saturno è un romanzo corale composto da tre storie che si intrecciano sovrapponendo epoche, personaggi, pensieri, suggestioni, leggende. Andiamo con ordine: la protagonista della "prima storia" si chiama Dora, una sofferente alter ego della scrittrice stessa; della sua vita personale e della sua carriera sappiamo pochissimo se non che bazzica da sempre il mondo della cultura e del teatro. La parabola di Dora è raccontata in funzione di Graziella, l'amica dell'infanzia, colei con cui ha stretto un rapporto di amicizia e complicità apparentemente indissolubili e al contempo il suo metro di paragone, la ragazza con cui per anni ha dovuto confrontarsi uscendo spesso perdente dalle sfide che la vita imponeva loro. Graziella era quella brava, intelligente, briosa, sveglia, bellissima e Dora la spalla, quella che vive all'ombra. Ormai sessantenne Dora, dopo aver visto un Vermeer e come colpita da un colpo di fulmine, ripesca dalla memoria l'immagine sbiadita dell'amica morta e rivive i momenti e gli attimi essenziali che hanno scandito il loro rapporto: il primo bacio con un ragazzo, la prima sbronza insieme, il giornale autoprodotto, il Partito Radicale, il giornalismo d'inchiesta, Bologna agosto 1980. Ed è qui che si innesta la "seconda storia" che assume i contorni della Storia Nera e che sancisce un cambio di registro sia stilistico che narrativo. Al dolente racconto di Dora si sostituisce la narrazione cruda e giornalistica della scomparsa in Libano di Graziella De Palo, freelance per Paese Sera, a cui segue un periodo di silenzi costruiti ad arte e diversi tentativi di depistaggio a cui partecipano a vario titolo servizi segreti deviati, ambasciatori bugiardi, logge massoniche, gruppi di lotta armata. Graziella si era avventurata in una terra inesplorata e pericolosa che partendo dalla strage di Bologna la stava conducendo al disvelamento di alcuni dei più grandi misteri d'Italia: un intrico di interessi che l'avevano infine portata alla morte. La "terza storia" nasce dal desiderio di Dora di dare sfogo al proprio impulso letterario, alla volontà di creazione artistica che da sempre la accompagna. Questo romanzo nel romanzo narra la vicenda di Han Van Meegeren, un famoso pittore passato alla storia per aver turlupinato i nazisti vendendogli un "falso Vermeer" da lui stesso dipinto. La sua abilità viene notata da un misterioso uomo di nome Acca che, in cambio di un ricchissimo compenso, lo convince ad attraversare mezza Europa per giungere in un paesino sperduto nella Marche. Qui Acca commissiona un grandissimo dipinto, un Giudizio Universale che celebri la grandezza della Morte e che rispetti un criterio fondamentale: essere un puro e semplice Vermeer.
Loredana Lipperini.

Il romanzo rappresenta anche una riflessione sul Vero e sul Falso, due concetti segnati da confini estremamente labili e sottili. Prendiamo Graziella che da buona giornalista convinta delle propria missione e che la propria giovinezza sia un'assicurazione contro la morte persegue con coraggio quella che dovrebbe essere la meta finale di qualsiasi buon cronista: la Verità. Ma quando questa Verità incrocia la strada di interessi ben più grandi e di apparati di Stato deviati, essa è destinata a soffocare come è soffocata Graziella. Oltre al danno si aggiunge la beffa che si consuma, come nei migliori polizieschi, sotto forma di insabbiamento. Buttare sotto il tappeto, nascondere informazioni, documenti, indicazioni, testimoni, vite affinchè tutto fosse celato e taciuto. Si giunge così al paradosso della manipolazione e dell'orientamento informativo che si sostanzia nella costruzione di una solida bugia che, detta e ridetta, ribadita sui canali mediatici, accettata e suffragata dalla disciplina e dalla letteratura storica si fa verità. Da una Verità cercata si arriva ad una Verità costruita che cela abilmente la menzogna. Abracadabra. E in fondo, ci dice tra le righe l'autrice, cos'è la letteratura, cos'è la pittura, cos'è l'arte in generale se non finzione, costruzione del falso finalizzata all'inganno del lettore o dello spettatore?


L'arrivo di Saturno
Loredana Lipperini
Bompiani, pp. 432, 2017
19,00




















mercoledì 1 novembre 2017

Operazione Antropoide

La copertina del libro.
Le prime battute di HHhH (Himmlers Hirn heisst Heydrich - Il cervello di Himmler si chiama Heydrich) sono fulminanti nella loro chiarezza e nella loro capacità di chiarire con precisione il tormentoso lavoro di cui Binet si è fatto carico:


"Gabcik - cosi si chiama - è un personaggio che è realmente esistito. [...] Da tempo lo vedo, sdraiato in quella stanzetta, con le imposte chiuse, la finestra aperta, intento ad ascoltare lo stridio del tram che si ferma davanti all'Orto botanico (in che direzione? Non lo so). Ma se metto per iscritto quell'immagine, come sto surrettiziamente facendo, non sono certo di rendergli omaggio"

Laurent Binet con l'incipit vuole subito evidenziare la natura storiografica e la perizia scientifica dell'opera, che gli ha permesso di vincere il prestigioso Prix Goncourt du premier roman nel 2010, sancendo un ideale patto di lettura con i propri lettori. Un tacito accordo che assume la forma di un grido con cui l'autore, sensibile a che la sua operazione di ricostruzione storica non venga confusa per un inaspettato talento da romanziere, ammonisce il lettore di prestare attenzione a un dato non secondario: quello che scriverò, pur secondo le forme del romanzo anziché del saggio storico, è reale. L'incipit del libro non è dunque solo la porta d'ingresso nel libro ma rappresenta una riflessione non secondaria intorno alla tesi di Milan Kundera secondo cui attribuire un nome, un identificativo ad un personaggio costituisca un atto di volgarità narrativa e intorno al gravoso compito che spetta al romanziere storico che si ritrova a ridurre "un uomo a volgare personaggio, e i suoi atti a letteratura: infamante alchimia, ma che farci?" per usare la parole di Binet. Questo è il tormento dell'autore: raccontare la vita e le aberranti "opere" del "boia di Praga" da un punto di vista storicistico ma attraverso i canoni della letteratura romanzesca. Trovare un punto di incontro tra due materie, la finzione e la Storia, che non possono andare a braccetto.



Reinhard T. E. Heydrich.
La giovinezza del biondissimo Reinhardt Heydrich, nato a Halle nel 1904, non presenta gli stigmi del predestinato; la fredda brutalità che contraddistinguerà la sua scalata nelle gerarchie naziste, rivelando un arrivismo fuori dal comune, lascia il posto nei primi anni ad un velo di timidezza e reticenza alimentato dalle accuse di avere nelle vene sangue ebraico. Una diceria che gli creerà non pochi problemi anche all'interno del partito. Lungi dall'individuare un rapporto di causa-effetto tra il bullismo scolastico e l'inclinazione demoniaca di Heydrich, Binet percorre la storia della Germania e dell'Europa attraverso le azioni del giovane militare tedesco che, coinvolto in un poco edificante scandalo sessuale, è costretto a lasciare la Marina per approdare nelle SS. Gli inizi del cadetto fallito all'interno della nomenclatura nazista non sono particolarmente esaltanti o degni di nota ma il momento di svolta, quel particolare attimo in cui la vita di milioni di persone è drasticamente cambiata, si consuma con l'incontro con Himmler, capo delle Schutzstaffel, del quale Heydrich diverrà ben presto il braccio destro. L'indole votata alla disciplina e l'attitudine al comando del giovane Heydrich rappresentano capacità straordinarie agli occhi del Fuhrer che ne facilita l'ascesa nel partito portandolo in palmo di mano. Non è un caso che sia proprio il giovane rampante ad essere scelto per ricoprire il ruolo di Reichsprotektor a Praga, cuore dell'Europa, città delle cento torri annessa dal Reich tedesco insieme a tutto il resto della Cechia. La sua naturale brutalità e le sue indubbie capacità politico-strategiche si rivelano ben preso armi vincenti per affievolire i moti della Resistenza, portare ordine nella capitale boema e asservire l'industria ceca (non ultima la famosa Skoda) allo sforzo bellico dei tedeschi, nel frattempo impegnati sul fronte russo nell'Operazione Barbarossa. Praga, la cui capitolazione attribuisce un prestigio monarchico a Heydrich, si rivela, già nell'anno successivo al suo arrivo, una trappola mortale grazie al coraggio di due eroici resistenti, Jan Kubis e Josef Gabcik, paracadutisti inviati da Londra per assassinare una delle teste  pensanti più preziose del cane nazista. In breve i protagonisti dell'evento passato alla storia come Operazione Antropoide


"Più che il piacere di rivelare uno scoop, credo che Heydrich assapori quello di verbalizzare l'inaudito e l'impensabile, come per dare già un po' di concretezza all'inimmaginabile verità. Ecco cosa ho da dirvi, lo sapete già, ma sta a me dirvelo, e sta a noi farlo. Vertigine dell'oratore che deve parlare dell'innominabile. Ebbrezza del mostro nell'evocare mostruosità che si annunciano e di cui è l'araldo"


Laurent Binet
L'infraromanzo (definizione dell'autore stesso) del professore francese non si esaurisce nel rendicontare con la necessaria pedanteria del saggio storico la carriera del "boia di Praga" e la relativa uccisione per mano di un manipolo di arditi cecoslovacchi. HHhH si dipana come riflessione possibile sulla Storia, intesa quale somma di storie più piccole, di percorsi casuali destinati a intrecciarsi, di momenti persi e di momenti guadagnati, di colpi di fortuna e di istanti di iella imprevedibili. Ma la Storia non è solo Antropoide, Hitler, Himmler o Heydric. La Storia è fatta soprattutto da migliaia, se non milioni, di Jan Kubis, Josef Gabcik, Josef Valcik, Paul Thummel che per i più disparati motivi la Storia stessa ha dimenticato. Eserciti di fantasmi composti da basisti, fiancheggiatori, partigiani, resistenti, semplici aiutanti e infiltrati che avvelenano il sonno di Binet il quale non riesce a darsi pace tormentandosi di fronte alla propria impotenza di ricordare e rendere omaggio a tutti quegli eroi senza volto e senza nome, maledicendo la limitatezza che l'approccio storicistico di cui fa punto d'orgoglio gli impone. HHhH  è un libro sui generis, che si colloca nel campo dell'indefinitezza di genere: è un romanzo e un saggio storico; ma al contempo non è né il primo né il secondo lasciando presagire che Binet abbia condotto studi di alchimia narrativa da qualche parte nella sua amata Francia, oppure nell'adorata Praga dove tutto inizia e tutto finisce.

Laurent Binet

HHhH
Einaudi, pp. 342, 2011
20,00




venerdì 27 ottobre 2017

Oltre Escobar

E' passato un anno dalla seconda stagione di Narcos e una scomoda domanda si insinua nella mente degli aficionados: come potrà una serie incentrata su un personaggio solidissimo come Escobar sopravvivere alla morte del suo centro di gravità, del suo polo di morbosa attrazione? Si può parlare di narcos e Colombia senza Pablo Escobar? Verdetto: sì, si può, eccome se si può. Ma facciamo un passo indietro. Narcos, appunto, dove eravamo rimasti? I più affezionati alla serie targata Netflix ricorderanno un inseguimento sui tetti e il cadavere di un Pablo Escobar barbuto, indebolito, lontana immagine del popolare mostro di Medellin, adagiato in una pozza di sangue su banalissime tegole. Circondato dagli agenti Murphy e Pena. Brillante vittoria per la DEA, per gli Stati Uniti e per il governo antinarcos guidato dal presidente César Gaviria. Ma la storia cambia in fretta e il narcotraffico non può arrestare il suo costante flusso "produttivo", soprattutto ora che per i padroni della droga si è aperta una breccia a Nord: America. Canada. In breve l'accordo NAFTA. Quindi, molto semplicemente, morto un papa se ne fa un altro e il posto vacante lasciato nella nomenclatura della droga colombiana viene occupato da un gruppo di intraprendenti uomini che abbiamo già avuto modo di conoscere nella seconda stagione: il cartello di Cali che ha saputo approfittare della debolezza del Patron per ampliare il proprio impero economico, politico e finanziario.


Gilberto Rodriguez, Miguel Rodriguez, Hélmer "Pacho" Herrera e José "Chepe" Santacruz Logrono sono i nuovi boss della droga colombiana e internazionale capaci di massimizzare i profitti grazie all'adozione di una strategia oculata e razionale, orchestrata al millimetro dal capo dei capi, la vera testa pensante del Cartello di Cali, Gilberto Rodriguez. Il modus operandi del Cartel è assai diverso nei modi e nello stile rispetto a quello di Escobar; se il Patron cercava ossessivamente il favore del popolo delle periferie arringando le folle con discorsi degni del miglior populista sulla piazza, investendo denari derivati dalla droga per sostenere economicamente i quartieri più poveri perseguendo con ostinazione maniacale un progetto di accreditamento agli occhi del popolino come Salvatore della Patria, gli uomini di Cali si distinguono per l'eleganza, la discrezione e le buone entrature garantite in qualsiasi ambito: politica, economia, finanza, giustizia, polizia. Per quale motivo spargere sangue mettendo in allerta le autorità e gettando il Paese in una spirale di orrore e violenza difficilmente arrestabile invece di operare nell'ombra stringendo patti e alleanze con le persone più insospettabili e più potenti? Perchè usare il bastone quando puoi usare la diplomazia? In questo modo Cali costruisce il proprio potere che sì, si basa sull'intimidazione, ma ancor di più sulla corruzione. Una corruzione talmente endemica, radicata e ramificata da far temere che la giustizia stavolta possa non farcela a sbattere i padrini in galera. Riciclaggio di denaro, controllo dei porti d'imbarco, sorveglianza del territorio e delle linee telefoniche, investimenti finanziari, politici, poliziotti, sergenti, ministri e agenti a libro paga. Minimo sforzo, massimo risultato per avere il mondo ai propri piedi e agire da una posizione di forza per trattare la resa con il governo. Strano ma vero, i padrini di Cali hanno sottoscritto un accordo con il neoeletto presidente Ernesto Samper che prevede l'interruzione delle attività criminali del cartello in cambio della comminazione di una pena irrisoria per criminali del calibro dei fratelli Rodriguez, Chepe e Pacho Herrera. L'annuncio trionfale della resa che prospetta un futuro legalizzato nel mondo degli affari e degli investimenti è l'inizio di un escalation critica in cui si mescolano interessi personali e utilitaristici, la tenacia di Javier Pena e l'intraprendenza di due nuovi agenti della DEA, il coraggio del tirapiedi Jorge Salcedo e la follia di David Rodriguez, inseguimenti in paradisi fiscali e carceri ad personam; il tutto compone un meccanismo che funziona come un orologio atomico che nemmeno per un attimo fa rimpiangere le passate stagioni.


L'indubbio successo della serie, certificato dal fatto che secondo quanto riportato da Wired Narcos è stata la serie tv più vista in America nel mese di settembre, ha creato inevitabilmente alte aspettative e chi pensava che l'esperienza televisiva di Narcos si fosse esaurita con la morte di Escobar si sbagliava di grosso visto che l'equipe che ha lavorato alla terza stagione ha saputo vincere una sfida non facile tanto che, forse un caso o forse no, nell'indice di gradimento di Rotten Tomatoes la terza stagione batte sia la prima che la seconda (vedere per credere). Narcos 3 prosegue il percorso televisivo già iniziato nel 2015 e improntato alla qualità scenografica e registica investendo con particolare intensità su due elementi: semplificazione della trama e costruzione hitchcockiana della suspence. La struttura narrativa delle 10 puntate cerca a tutti i costi di evitare un'eccessiva complessità e macchinosità, pur non rinunciando ad una studiata architettura, a vantaggio dello spettatore a cui viene risparmiata la fatica di seguire troppi rivoli narrativi che rischiano, mettendo troppa carne al fuoco, di essere chiusi in modo inverosimile oppure di confondere l'esperienza visiva. C'è quindi una trama centrale, l'inevitabile caccia di Pena ai padrini di Cali, a cui si collegano poche ed efficaci sottotrame che permettono un'esperienza più vivida e intensa e favoriscono la caratterizzazione di personaggi nuovi: la guerra di "Pacho" Herrera contro i Salazar, la gestione di Chepe dei traffici del cartello a New York, il percorso umano di Jorge Salcedo. Piccoli tasselli di un grande mosaico equilibrato dove ogni cosa trova il suo posto. Il dipanamento della trama è accompagnato da una profusione di stratagemmi filmico-narrativi in grado di generare una buona dose di adrenalinica tensione che inchioda lo spettatore al divano tra inseguimenti, depistaggi e momenti di suspence assoluta dove trattenere il fiato è d'obbligo e dove la violenza dei narcos lancia un'inevitabile ombra di precarietà su tutti coloro che, nel bene o nel male, sono coinvolti. Il tutto si conclude in attesa che i riflettori si spengano sulla Colombia, su Medellin e su Cali per illuminare un nuovo palcoscenico, il Messico, e la nuova stella nascente del narcotraffico, Joaquin Guzman, aka El Chapo.


domenica 8 ottobre 2017

Nel segno della pecora

La copertina del romanzo.
Il brulicante mondo dei lettori spesso non conosce le mezze misure nell'esprimere un giudizio su una delle personalità letterarie che, nel bene o nel male, da qualunque parte dello schieramento lo si giudichi, ha saputo incidere sulla letteratura contemporanea. Haruki Murakami, o lo si ama o lo si odia. C'è chi lo osanna come maestro della letteratura, come un uomo in grado di creare universi onirici tali da produrre una sensazione di interdizione nel lettore che, sperso nelle pagine dei suoi libri, è privo di una guida e di un appiglio. Parte della comunità letteraria non nasconde la propria perplessità rispetto alla scarsa propensione dell'Accademia di Svezia di assegnare il Nobel a Murakami che sembra avere ereditato, al pari di altri illustri autori ancora a bocca asciutta come Philip Roth, Don DeLillo o Margaret Atwood, la stessa maledizione del DiCaprio pre-Revenant. Dall'altro lato della barricata si trovano i "detrattori" dell'autore di Kyoto: Roberto Cotroneo, pur riconoscendone il talento, ha scritto che "non mi piace Haruki Murakami, e non mi piace perchè mi annoia" criticandone l'eccessivo ermetismo che lo induce alla noia, quella stessa noia che il personaggio di Nel segno della pecora cerca di sfuggire. Ancora, in un recente articolo pubblicato sul suo sito, Paolo Zardi definisce "Norwegian Wood [...] un romanzo inutile" che potrebbe ridursi a pochissime pagine se l'autore evitasse di cedere ad una vacua e noiosa prolissità. Murakami ondeggia dunque tra due estremi che appaiono inconciliabili: la deificazione dell'estro narrativo da un lato e la tediosità oscura, contorta di una scrittura allusiva e ipermetaforica dall'altro.


Nel segno della pecora, uscito nel lontano 1982, racchiude e al contempo anticipa temi, stili e tratti distintivi della scrittura di Murakami. Gli stessi che i lettori più affezionati hanno trovato nelle pubblicazioni seguenti come l'apprezzatissimo Kafka sulla spiaggia (2002), l'altrettanto corposo La fine del mondo e il paese delle meraviglie (1985) o anche Dance Dance Dance (1988), ideale seguito de Nel segno della pecora. Anche in questo romanzo (quasi d'esordio) il non-detto dell'esistenza e sull'esistenza del protagonista, che si trasforma inevitabilmente in un non-detto narrativo, innesca un processo conflittuale nel lettore che storce il naso all'idea di sapere poco o nulla dell'eroe (basti pensare che tutti i personaggi rimangono anonimi o nascosti dietro un appellativo) ma al contempo ne è inconsciamente ipnotizzato e incuriosito. Il protagonista, un giovane pubblicitario quasi giunto alla soglia dei trent'anni, rientra a pieno titolo nella categoria dei personaggi picareschi di Murakami: donne, bambini, vecchi, giovani uomini che, per motivi che spesso esulano dalla logica e dalla razionalità, intraprendono un percorso di viaggio volto alla ricerca del sé. Il vecchio Nakata e il giovane Tamura di Kafka sulla spiaggia o il suddetto pubblicitario sono emblemi di un'umanità sperduta, a volte fallita che cerca se stessa. Il pretesto del viaggio in questo caso, pur strano che sia, è rappresentato da una rarissima specie di pecora con una macchia a forma di stella sulla schiena che il giovane è incaricato di cercare dopo che la sua agenzia pubblicitaria ha pubblicato, all'interno di una banalissima newsletter, una fotografia in cui la pecora appariva all'interno di un più ampio gregge. Contattato da un misterioso e minaccioso uomo vestito di nero, che si presenta come il braccio destro di un potentissimo uomo politico di destra, detto il Maestro, il giovane si trova suo malgrado a dover fare i conti con un ricatto: il ritrovamento della pecora, che per qualche strana ragione potrebbe rappresentare l'ultima speranza di vita per il boss morente, in cambio della sopravvivenza dell'agenzia pubblicitaria di cui è consocio. Il giovane, con un recentissimo divorzio alle spalle e intrappolato in un'esistenza abitudinaria cui non riesce ad attribuire un significato, coglie l'occasione di buttare la propria vita alle spalle e imbarcarsi in un viaggio senza meta precisa nè serie possibilità di riuscita. La ricerca nel segno della pecora, metafora del viaggio alla ricerca del sé, lo conduce in un'ampia radura sperduta e fredda nella regione dello Hokkaido dove, all'interno di una accogliente baita di montagna, alcuni nodi verranno al pettine. Alcuni, non tutti. Sia mai che il buon Haruki ci sveli troppo delle sue storie.

Murakami Haruki
Per gli ammiratori di Murakami Nel segno della pecora è una tappa irrinunciabile, nonché l'ennesima occasione per toccare con mano il realismo magico del giapponese che sembra divertirsi come un bambino nell'inserire frammenti di pura irrealtà nelle proprie strutture e logiche narrative: ragazze con orecchie magiche in grado di funzionare da recettori solo se esposte all'interlocutore, autisti che telefonano a Dio, improbabili discussioni senza senso (almeno apparente) sulla natura dei nomi delle cose e altre bizzarrie che rendono unico lo stile di Murakami. Una scrittura pacata e accurata, quasi da ritmo sincopato, che ubriaca e ipnotizza il lettore proprio nei momenti di stanca dell'azione romanzesca dove i ritmi rallentano, i dialoghi si sospendono e il silenzio delle cose prende il sopravvento su tutto, anche sull'autore stesso, come se il romanzo diventasse la caverna adatta in cui fare riverberare l'eco del silenzio. L'intrinseca polisemia delle figure murakamiane lascia aperti ampi spiragli interpretativi rispetto al senso e alla funzione della pecora, alle scelte e al futuro del giovane pubblicitario, al senso più profondo di un viaggio fisico e spirituale da Tokyo allo Hokkaido, dall'urbanizzazione alla natura incontaminata. Leggere Murakami significa mettere in gioco se stessi e parte della propria capacità di lettura e interpretazione del mondo. Per i critici e i detrattori è indubbio che convenga starne alla larga, onde evitare di imbattersi in noiosi dialoghi, finali aperti e significati impalpabili.

Murakami Haruki

Nel segno della pecora
Einaudi, pp. 293, 2010
19,50

lunedì 25 settembre 2017

Lapides ad legendum

La copertina del romanzo.
L'abitudine arruginisce lo spirito critico e la consuetudine banalizza le più grandi conquiste che l'umanità ha compiuto. Il clic dell'interruttore della luce è un gesto ormai talmente ovvio da impedirci di comprendere la rivoluzionarietà della scoperta da un lato e di immaginare come fosse la vita prima dell'invenzione di Thomas Edison dall'altro. L'accesso alle informazioni di Wikipedia costituisce un'abitudine imprescindibile per diverse generazioni di giovani e non solo, nonostante questo sia entrato nella pratica quotidiana da poco; l'enciclopedia digitale è infatti nata nel non lontano 2001 e in pochissimi anni ha sostanzialmente mandato in pensione le vecchie, care e voluminose enciclopedie e ha modificato le modalità di ricerca di milioni di studenti. Lo stesso discorso, facendo un balzo di qualche secolo all'indietro, è valido per un ritrovato per noi banale ma che ha letteralmente cambiato la vita a miliardi di persone: la scoperta del vetro per la produzione degli occhiali. La vicenda che Roberto Tiraboschi prende a pretesto per la costruzione di un romanzo in bilico tra la narrazione storico-geografica e il registro giallo è quella della ricerca della formula segreta per trasformare il vetro in uno strumento atto a sconfiggere il morbo della vista: la cecità. Chi indossa gli occhiali, qualunque problema ottico debba sopportare, comprende molto bene l'importanza di avere due belle lenti convesse ai due lati del naso, come rotonde ali di gabbiano. Senza di esse la lettura diventa una faticaccia costringendo gli occhi a strizzarsi, la guida si trasforma in una pericolosa gimcana dove l'accecato rappresenta un pericolo pubblico per la sicurezza, il mondo si trasforma in un miscuglio di macchie colorate indistinte che assomigliano alle ninfee di Monet. Agli albori del XII secolo la fabbricazione degli occhiali era un lontano miraggio e coloro che soffrivano di problemi oculistici si dovevano rassegnare a vedere lentamente e costantemente calare le tenebre sui propri occhi. Una delle tante anime in pena è Edgardo d'Arduino, scriba e amanuense dell'abbazia di Bobbio, la cui menomazione in giovanissima età rappresenta un colpo morale durissimo per chi dedica la propria vita monacale alla copiatura di testi sacri e antichi.


Con un narrazione in medias res che lascia poco spazio alla presentazione dei luoghi e dei personaggi, ci ritroviamo ad accompagnare Edgardo lo Storpio e fratello Ademaro dall'abbazia benedettina di Bobbio a quella di San Giorgio, vicino alla laguna dove, tra isolotti sabbiosi e rii sinuosi, sorge una Venetia molto diversa da quella che conosciamo. Ademaro ha rivelato a Edgardo che nella città dei Dogi alcuni fiolari, cioè maestri vetrai, hanno scoperto il modo di creare delle pietre per gli occhi. Pietre di vetro, lapides ad legendum, dal potere miracoloso in grado di sconfiggere il brutto male di qualsiasi accecato. Spinto dalla speranza di rintracciare gli autori di tale prodigio, Edgardo si inoltra in una Venetia in via di costruzione e ampliamento ma lontanissima dallo splendore della futura Serenissima; una città melliflua, infida, ambigua e pericolosa dove omicidi cruenti in cui i bulbi oculari dei cadaveri vengono rimpiazzati da colate di vetro si susseguono senza sosta convincendo i veneziani di essere maledetti da Dio. Il fermento palpabile nel mondo dei maestri vetrai è alimentato dalla possibilità sempre più concreta che qualcuno riesca finalmente a trovare la formula magica per la fabbricazione del vetro cristallino, chimera di qualsiasi artista del vetro. Una scoperta che garantirebbe al suo scopritore una fama imperitura. Edgardo si ritrova suo malgrado coinvolto in un'aspra lotta per la conquista della gloria che mescola le esistenze e i cammini di un burbero ma utopico fiolario, Angelo Segrado, di un ricco e viscido artista del mosaico e del vetro, Tataro, di un mercante ineffabile, Karamago e di un cristallere pataccaro di nome Zoto, disposto a qualsiasi bassezza pur di raggiungere i propri obiettivi. Ingolosito dalla concreta opportunità di entrare in possesso della magnifica pietra, Edgardo abbandona qualsiasi prudenza e intraprende un percorso di degrado peccaminoso segnato dalla violazione di regole e codici impostigli dalla tonaca. In breve tempo, da predatore si trasforma in preda diventando una marionetta manipolabile da chi agisce senza scrupolo...

Lo stile di Tiraboschi si apprezza per la pulizia e la nitidezza delle frasi e per la ricostruzione storica, geografica e folkloristica di una città antenata dell'odierna Venezia ma sempre afflitta dalla maledetta acqua alta. Lo sceneggiatore bergamasco si nota soprattutto per la capacità di assemblare con le parole il mondo veneziano, tanto da rendere vivide, e financo palpabili, atmosfere, sensazioni e architetture, rivi, calli e architravi. Il libro è un percorso di piacevole accompagnamento al lettore che inorridirà di fronte alla brutalità dell'assassino degli oci, si accalderà fino a sudare durante la preparazione della pasta di vetro nella fornace dei fiolari, si beerà della lucentezza dei mosaici di San Marco e sentirà freddo ai piedi quando il vento maestrale soffierà su Venezia e nella sue calli insidiandosi tra tetti sfatti e precari ponticelli di assi di legno. La prosa di Tiraboschi è dunque palpabile, tangibile nella sua forza comunicativa ed espressiva. La pietra per gli occhi, primo volume di una saga sulla storia di Venezia seguito da La bottega dello speziale, è un piatto gustoso per chi ha saputo amare Il nome della rosa di Umberto Eco, una scia di profumo in grado di risvegliare ricordi offuscati che diventano nitidi figurandosi Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskerville nell'omonimo film di Jean-Jacques Annaud. Potere del cinema! Diversi sono i richiami di trama, assimilabili a plausibili omaggi dell'allievo al maestro: monaci perduti, biblioteche misteriose, manoscritti fatali, religioso fervore. Tutto cucinato a dovere in salsa storico-thriller.

Roberto Tiraboschi
La pietra per gli occhi
e/o, pp. 278, 2016
9,50

giovedì 14 settembre 2017

Pregiudizio mon amour

La copertina del libro.
Capita di rado che un testo contenente riferimenti anche espliciti al periodo in cui viene scritto e poi pubblicato finisca per risultare quasi più significativo a posterioriPerché Divorzio all'islamica a viale Marconi è più attuale adesso, settembre 2017 o giu di rispetto a quando uscì per la prima volta nel 2012? La questione è in realtà molto semplice. Perché il terrorismo jiahdista non aveva ancora colpito in modo significativo l'Europa. Il Califfato muoveva i suoi primi passi, gli atti terroristici c'erano ma erano lontani dalla nostra percezione e dalla nostra vita di occidentali e un'autobomba a Kabul era la norma, almeno finché non ce la siamo trovati in casa. Il libro di Lakhous é un testo 'odierno' perché viene dopo il Bataclan, dopo il Boulevard des Anglais di Nizza, dopo Zaventem, dopo Londra, dopo Barcellona. Dopo che la sicurezza abitudinaria che davamo per scontata é andata in frantumi lasciando che il progetto terroristico compisse il suo lavoro di penetrazione psicologica piantando un seme di inquietudine nella nostra coscienza. É attuale perché viene dopo tutto questo.

Donna con il velo.
Christian Mazzari è un siciliano baffuto che conosce l'arabo alla perfezione e che per sbarcare il lunario lavora come interprete e traduttore al tribunale di Palermo. È proprio sulle scale del tribunale che un giorno un uomo distinto e misterioso si approccia a Christian presentandosi con l'appellativo di Giuda, un funzionario dei servizi segreti italiani in possesso di informazioni scottanti: due cellule terroristiche stanno progettando degli attentati a Roma, la Capitale, e una delle due pare abbia la sua base strategico-logistica dalle parti di Viale Marconi. Christian, dopo un'accurata selezione, è risultato essere l'infiltrato ideale per questa operazione delicatissima da cui dipende la sicurezza interna del Paese ed è così che con la velocità di un uragano, convinto anche da un lauto compenso, Christian smette i panni del medio borghese acculturato per assumere quelli di Issa, talpa tunisina in missione segreta in Viale Marconi. A fare da controcanto al protagonista maschile ci pensa Safia, o Sofia, una giovane donna egiziana, sposata ad un praticante musulmano che lavora come pizzaiolo e che preferisce la compagnia di madame Al-Jazeera a quella dell'affascinante moglie. Safia è una donna matura, consapevole del proprio corpo, coerente ai principi dell'Islam ma anche incline a metterli in dubbio; Safia non è disposta a recitare la parte della donna sottomessa e non si pone alcun problema a contestare norme e precetti con la forza della riflessione e della logica: perché a nessuna donna è consentito ricoprire l'incarico di imam, di guida spirituale della comunità, nonostante il Corano non esprima alcun divieto in tal senso? Perché la circoncisione è una tradizione che giustifica feste e manifestazioni di giubilo mentre la mutilazione degli organi sessuali femminili è bollata come qualcosa di sporco e, come tale, da nascondere? Perché l'obbligo del velo viene spacciato come uno dei pilastri dell'Islam quando la norma non contempla alcun riferimento al velo? Le vicende dei due protagonisti scorrono in parallelo con Issa che si ritrova giocoforza a condividere un minuscolo appartamento con un gruppo di immigrati regolari e a lavorare come aiuto-pizzaiolo per rendere credibile la propria copertura mentre Safia si barcamena tra compiti da casalinga e il lavoro di parrucchiera abusiva, tenuto nascosto al marito per non incorrere nella sua ira. La trama scorre via molto velocemente lasciando presagire sin da subito l'intreccio amoroso tra i due personaggi e riserva un piccolo grande colpo di scena in chiusa del romanzo. 

Mi pento subito di aver fatto il moralista con lui. Potevo risparmiargli queste fottute lezioni sulla legalità. La legge è sempre dalla parte del più forte, del più ricco. Insomma, non mi devo dimenticare che vengo dalla Sicilia! C'è una bella differenza tra chi si può permettere di pagare un avvocato di grido e chi si deve accontentare di un piscialletto alle prime armi. Col cazzo che siamo tutti uguali davanti alla legge! 

Amara Lakhous
Divorzio all'islamica a viale Marconi, al netto di un plot che talvolta scricchiola e soprattutto di una costruzione dei dialoghi insufficiente e scolastica, si propone come un viaggio di introspezione collettiva che, accanto alla messa in scena di alcune abitudini della cultura musulmana, svela noi stessi e il nostro essere italiani. Ci mostra in modo diretto e ruvido, con un linguaggio semplice e schietto, frutto della limitatezza linguistica di un autore coraggioso, chi siamo e come siamo cambiati: l'attitudine all'ospitalità, o anche alla semplice accoglienzaha lasciato il posto al sospetto, all'insicurezza e al risentimento verso ciò che non si conosce; lo sbandieramento di concetti quali parità di genere e accettazione del diverso si rivela infine pura forma retorica priva di sostanza; lo stereotipo assume la funzione di unico metro di giudizio di ciò che appartiene ad una sfera culturale e religiosa diversa dalla propria favorendo la germinazione di sentimenti sciovinisti, violentemente identitari e spaventati rispetto a tutto ciò che esula dall'esperienza del quotidiano. Non appena Lakhous sbatte in faccia al lettore le pecche, i difetti, le idiosincrasie, il bigottismdella popolosa fauna arabeggiante orbitante nella zona sospetta di Viale Marconilasciando che il lettore più retrivo si compiaccia della propria implicita superioritàecco che immediatamente la situazione si ribalta lasciando risaltare con un doloroso contrappasso le ipocrisie e la faciloneria degli italiani. Alla diffusa idea per cui ogni arabo è terrorista si contrappone il pensiero per cui ogni siciliano è mafioso e al pregiudizio degli immigrati che rubano il lavoro fa da contrappeso la convinzione di un'Italia irredimibile e marcia fino al midollo in una corsa al pregiudizio che dovrebbe indurre a porsi una domanda: non sarebbe meglio anteporre la conoscenza al giudizio?

Divorzio all'islamica a viale Marconi
Amara Lakhous
e/o, pp. 188, 2012
9,00